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Le streghe di Triora vivono ancora
Le streghe di Triora vivono ancora
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Per la donna triorese quell’insignificante pianta, chiamata erba della Madonna, rappresenta un vero toccasana contro ogni male, dall’insonnia al mal di pancia, dal raffreddore ai disturbi nervosi. Prelevandone una manciatina dal barattolo non fa che perpetuare una pratica atavica. Il nome volgare dell’erba, strigonella o erba stregona, è una delle numerose contraddizioni insite nella storia delle streghe di Triora.
Anche la mamma che sfrega l’aglio o pone il rametto di assenzio sul pancino del bimbo agitato per scacciare i vermi e gli spiriti maligni non fa che confermare antiche conoscenze.
Ora, almeno ufficialmente, le streghe a Triora non esistono più; rimane il ricordo di racconti fantastici, popolati di incubi ma soprattutto le lettere, i verbali di interrogatori e torture e le sentenze di condanna a morte di oltre quattrocento anni fa. Quelle pagine ingiallite dal tempo parlano di donne accusate delle colpe più orrende: l’infanticidio, l’accoppiamento carnale con il diavolo, l’inaridimento delle mammelle delle mucche e l’inacidimento del latte materno. Una bàgiua aveva provocato una tempesta talmente dannosa da compromettere definitivamente il raccolto delle vigne per almeno tre anni, un’altra ancora aveva confezionato un veleno, composto da cervello di gatto e si sangue umano, facendolo ingerire mortamente ad un cappellaio genovese. Talvolta, per guastare chi avesse loro arrecato qualche sgarbo, si trasformavano in gatti, intrufolandosi nelle abitazioni; non disdegnavano neppure di assumere le sembianze di un caprone, magari per volare all’isola della Gallinara.
Anche una presunta carestia era colpa, anzi la principale colpa - quella che diede inizio alla triste vicenda, con lo stanziamento di ben cinquecento scudi da parte del Parlamento - di quelle trenta donne, di quel fanciullo anch’egli accusato e di quello stregone finito dietro le sbarre delle carceri genovesi.
Se i roghi non illuminarono l’Alta Valle Argentina, non fu certo dovuto ad un atto di clemenza, bensì ad un aspro contrasto fra le autorità civili e quelle religiose.
Passando per le vie dell’antico borgo medievale, si provano ancora improvvisi brividi; alle inferriate delle abitazioni di Via San Dalmazzo, adibite a carcere, sembrano giungere lamenti, che a poco a poco a poco diventano urla raccappriccianti.
Il costituto dei tormenti di Franchetta Borelli testimonia la crudeltà del Commissario straordinario della Repubblica di Genova, Giulio Scribani, autentico mattatore della vicenda, distintosi in una frenetica e fruttuosa caccia alle streghe lungo tutto il territorio dell’antica podesteria. Franchetta nulla confessava, perché nulla aveva commesso; eppure venne sottoposta per due giorni alla tortura del cavalletto; dalle sue parole, dalle sue richieste di misericordia traspare il rimpianto per non poter andare nei boschi dove, sono parole sue, nascevano così belle castagne marrone…
L’inumano Commissario, in preda a veri e propri raptus, venne dapprima scomunicato per la sua ferocia ed implacabilità ma successivamente assolto per questioni meramente politiche e di convenienza.
Presso la Cabotina, casolare dall’aspetto tetro da sempre creduto dimora delle streghe, durante certe notti nebbiose sembrano risuonare grida gutturali, mentre luci illuminano improvvisamente la zona, dandole un aspetto vieppiù sinistro.
Qualcuno, giunto nei pressi della fontana di Campumavue o vicino alle limpide cascate del Lagudegnu, si fa il segno della croce; qualcun altro esita prima di prendere un sentiero che conduce ad un casolare un tempo abitato da una strega.
Le streghe non sono morte. Sopravvivono, oltre che nei gesti e nelle abitudini quotidiane, tra i muri, nelle foreste e presso le sorgenti della magica ed incantevole Valle Argentina.
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